La satira

Satira e dialetto.

La “satira” a Roma è di casa dai tempi di Marziale e Giovenale: i romani ce l’hanno, si può dire, nel sangue.

Un romano difficilmente si limita a fare dell’umorismo: fa satira anche involontariamente.

C’è un detto che esiste solo a Roma: “è mejo perde un bon amico, che una bona risposta!”

La “bona risposta” difficilmente farà soltanto ridere: colpirà a fondo, facendo “pensare”.

Infatti, mentre l’umorismo si può raggiungere col far ridere chi ascolta (o legge), la satira a volte provoca soltanto un accenno all’ilarità, quasi sempre non più di un sorriso che lascia il classico “amaro in bocca”.

La satira punge, sbeffeggia, ridicolizza, facendo riflettere. Non è mai superficiale: va al fondo delle cose e delle persone. Scava dentro, e molte volte fa crollare miti e stereotipi.

Tipico della satira è quello di “rivoltare” l’ottica comune. Il mettersi dalla parte opposta di chi guarda. Stravolgere le cose in quanto osservate da punti di vista insoliti.

A Roma, chi cerca di mettere in versi cose e fatti deve per forza fare i conti con questo aspetto dell’animo romano: non si è romani veramente se non si è (il più delle volte incosciamente) satirici.

A questo punto occorre precisare che per essere romani non occorre avere le classiche sette generazioni alle spalle: basta acquisire quel modo di fare, ma soprattutto di essere, che chiunque può avvertire quando viene a contatto con questa meravigliosa città, che tutti comprendono ma che pochi assimilano.

Ritorniamo alla satira: nella sezione “il romanesco in...poesia” ci sono esempi che dimostrano la differenza tra satira ed umorismo.

Vediamo come i romaneschi (coloro che adottano il dialetto del popolo) riescono a rivoltare l’ottica o a suscitare riflessioni su questioni apparentemente assodate.

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