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L'ACCADEMIA A PALAZZO VALENTINI

LI REGAZZINI DE ROMA ANTICA

“Ecco la nonna o la zia così timorata del Dio
sollevare dalla culla il bambino
e purificargli la fronte e le umide labbra
con il dito medio bagnato di lustrale saliva,
abile com’è a fermare gli influssi maligni.”

Così il poeta Persio descriveva la prima pratica lustrale effettuata sul bambino riconosciuto dal padre. Quello del riconoscimento era il rito più importante appena dopo la nascita.
Dopo essere venuto al mondo con l’aiuto di una ostetrica e di tutte le donne della casa, il neonato veniva lavato e avvolto in bende di lana e presentato al padre per la cerimonia dell’accettazione: questa usanza, anche un po’ crudele, consisteva nell’espressione della volontà paterna di accettare o no il bambino come figlio proprio. Nei casi (purtroppo frequenti) in cui il neonato non venisse riconosciuto, veniva “esposto” ossia abbandonato all’esterno della casa paterna. Questo voleva dire una morte sicura a meno di un “fortunato” incontro con qualche passante che lo raccoglieva, lo cresceva e lo vendeva come schiavo. Se, invece, il padre prendeva il figlio e lo sollevava da terra, il bambino veniva riconosciuto come legittimo e entrava a far parte della famiglia a tutti gli effetti. Veniva allevato dalla madre, a volte affiancata da una nutrice.
Durante i primi giorni di vita, venivano fatte offerte a divinità protettrici in quanto si credeva che il bambino fosse particolarmente esposto a minacce degli spiriti maligni. Giunone e Ercole erano gli dei incaricati di proteggere il bambino.
Il “dies lustricus” era il giorno della purificazione: a nove giorni dalla nascita per i maschi, a otto per le femmine: si facevano sacrifici e si invocavano le “fata scribanda” ovvero le Parche, che, dopo aver interrogato gli astri, scrivevano il destino del piccolo. In questo giorno si assegnava ai maschi il “prenomen”, equivalente al nostro nome. Le bambine non ricevevano il prenomen, ma venivano chiamate col nome della “gens” a cui appartenevano: in pratica le femmine avevano solo il cognome. In quel giorno, veniva appesa al collo del neonato la “bulla”: un pendaglio d’oro o di cuoio che conteneva amuleti che proteggevano dai malefici. Questa bulla rimaneva al collo fino al giorno delle nozze per le femmine, e fino al momento in cui il maschio avesse indossato la “toga virile”: il passaggio ufficiale dalla fanciullezza all’età adulta in cui veniva riconosciuto cittadino romano. La bulla era una prerogativa dei liberi: non era consentita ai figli di schiavi, schiavi anche loro.
Fino ai 14-16 anni, il bambino libero indossava la “toga praetexta”: un panno di lana bianco con un grosso bordo porpora. Il 17 marzo, in occasione dei “liberalia”, il giovane posava la toga praetexta davanti ai suoi lari e indossava la “toga virilis”, completamente bianca. Insieme al vecchio abito, depositava anche la “bulla”. A quel punto, veniva accompagnato dal padre nel Foro, seguito da un corteo di parenti e amici, e veniva iscritto nelle liste cittadine.
La toga era l’abito ufficiale dei romani: in casa veniva smessa a favore della “tunica”, più semplice e pratica. Le donne, in periodo arcaico indossavano anch’esse la toga, che poi fu sostituita dalla “stola”: un vestito lungo fino ai piedi, stretto in vita da una cintura la cui preziosità indicava il censo di appartenenza. Ai piedi le donne avevano le “solae” in casa e, in pubblico, gli stessi calzari degli uomini: i “calcei”.
I bambini piccoli giocavano con vari “tintinnabula” e i “crotali”, una specie dei nostri suonarelli. Con l’età si differenziavano i giochi di maschi e femmine: per le bambine c’erano le bambole realizzate con stracci, panni, paglia, o addirittura in legno, o osso, o avorio, con le stesse acconciature delle matrone dell’epoca. Per i maschi, c’era la palla, il cerchio, la trottola. Quelli più grandi giocavano a pari e dispari, con gli astragali, con noci, con le monete a “capita et navia” (testa o croce). Giocavano con carretti tirati da bestie o con giochi inventati dalla fantasia. La mosca cieca aveva una formula speciale: il bambino cercava di acchiappare i compagni dicendo la frase: “Darò la caccia alla mosca di rame”, e gli altri rispondevano: “La caccerai e non la prenderai”, colpendo il cacciatore con un bastoncino. C’era anche il gioco della pentola: un bambino seduto cercava di acchiappare gli altri che lo prendevano a scappellotti o a pizzichi, cercando di non farsi prendere: chi veniva preso diventava “pentola” e il gioco ricominciava. Dopo la conquista della Grecia, i bambini impararono nuovi giochi: uno dei più praticati era quello del “Re” in cui uno veniva proclamato re dopo che tutti si erano esibiti in gare di abilità o destrezza: il re impartiva ordini, mentre l’ultimo arrivato, chiamato “scabbioso”, era sbeffeggiato dagli altri.
L’educazione dei primi anni era un compito delle madri. Ovunque i bambini abitassero, sia nelle “domus” dei ricchi, che nelle “insulae” dei poveri, la madre occupava molto del suo tempo a istruire il piccolo nei primi rudimenti essenziali.
Il padre insegnava, oltre alle regole del vivere civile, anche la genealogia familiare (quando c’era…), il rispetto verso gli dei, verso i genitori, fino a quel forte senso di lealtà e coraggio che hanno sempre distinto i romani di tutte le epoche.
Tutto questo, per i maschi. Le bambine non si staccavano mai dalla madre e dall’ambiente domestico, fino alle nozze. Erano pochissime, e solo a partire dal primo secolo, quelle che ricevevano una vera istruzione scolastica. I confini culturali in cui erano costrette le femmine, non andavano mai oltre la propria abitazione e i compiti duri e coercitivi della gestione della casa.
Al compimento dei 7 anni, il padre subentrava nel compito: a qualsiasi ceto appartenesse il bambino. I ricchi venivano seguiti da educatori stipendiati che si recavano nella casa familiare, i meno abbienti si riunivano in ambienti diversi: dai portici dei templi e delle basiliche, a zone del Foro riparate dalla pioggia e dal sole, ai cortili di qualche insula o in un locale gestito direttamente dal maestro: la “pergula”. I piccoli sedevano su sgabelli e l’insegnante su una sedia rialzata: la “cathedra”. Il pedagogo veniva pagato (pochissimo) con denari o in natura: il suo mestiere era considerato umilissimo. Giovenale, parlando con un amico di un tizio di cui entrambi non avevano più notizie, commenta così: “O è morto, o fa il maestro da qualche parte”.
Dopo la conquista della Grecia, i più ricchi si accaparravano maestri che insegnavano in maniera particolarmente efficace e molti di loro raggiunsero posizioni di prestigio. Uno per tutti: Livio Andronico, talmente bravo da arrivare a essere affrancato dalla sua condizione di schiavo.
Le fasi dello studio erano divise in tre periodi: dai 7 ai 12 anni si frequentavano i corsi tenuti dai “litteratores”, l’equivalente dei nostri maestri elementari. Poi si passava alle lezioni del “gramaticus” e verso i 14 anni subentrava (per chi poteva) il “retor”, che completava l’istruzione anche in funzione dell’indirizzo che voleva il “pater familias” per la futura carriera del figlio.
Non dimentichiamo che la vita per i bambini non ricchi, era completamente diversa: è vero che molti riuscivano ad avere l’istruzione elementare (a Roma l’alfabetizzazione sfiorava il 90% della popolazione), ma pochissimi proseguivano gli studi. A 12 anni un ragazzino “libero” cominciava a lavorare, o seguendo il padre o “andando a bottega” come apprendista, o veniva utilizzato per lavori poco pesanti. Girare da soli per la città, era un grosso pericolo: i trafficanti di bambini erano ovunque: rapivano i piccoli che venivano portati lontano da Roma (senza esagerare: bastava “Velitrae”) e venduti come schiavi.
Per i bambini nati o diventati schiavi, le cose andavano molto male: oltre che impegnati in qualsiasi lavoro, venivano promessi a lanisti che li avrebbero istruiti per diventare gladiatori, o, peggio, a lenoni che li sfruttavano in case di piacere. Quando non era il padrone stesso ad approfittare sessualmente del bambino. Una iscrizione funeraria di un bambino di 5 anni, così recita: “Avevo appena intravista la luce, e subito mi fu tolta. Così, nessun padrone poté godere di me, né a me fu dato sapere perché fossi nato”.
Un’altra lapide invece descrive così la morte di un altro bambino: “Questo tumulo ricopre i Mani di Ummidia e del suo primogenito, nato in casa dei padroni. Un solo giorno li rapì. Pigiati dalla ressa sul Campidoglio, giunsero insieme al giorno estremo”.
Torniamo ai fortunati che potevano studiare.
La giornata del piccolo scolaro, cominciava molto presto. Riporto un breve passo da un testo di “bon ton” del cittadino romano del IV secolo.
“Sul far del giorno mi sveglio, mi siedo sulla sponda del letto, chiamo lo schiavo che mi porti calzerotti e scarpe. Mi danno un asciugamano pulito e una brocca con acqua: mi lavo le mani e la bocca, sfrego le dita sulle gengive, mi soffio il naso, mi asciugo, come conviene ad un ragazzo ben educato. Mi tolgo la camicia da notte, mi metto una tunica e una cintura, mi profumo, mi pettino, avvolgo un fazzoletto intorno al collo, mi infilo il mio mantello bianco. Vado a salutare i genitori, cerco gli oggetti per scrivere e li do allo schiavo che mi accompagna a scuola. Quando arrivo, tutti i compagni mi vengono incontro e mi salutano. Poso il mantello nel vestibolo e saluto il maestro: egli mi abbraccia e mi rende il saluto. Mi siedo dove trovo posto. Dopo finita la lezione domando al maestro il permesso di andare a casa per mangiare. Mangio pane, olive, formaggio, fichi secchi e noci, bevo acqua fresca e riparto per la scuola. Dopo la seconda parte della lezione, il maestro ci porta tutti al bagno: faccio portare asciugamani puliti e auguro a tutti: “Buon bagno, buon pranzo”.
Nella scuola primaria si imparava a leggere, scrivere e fare i calcoli. Si insegnavano le lettere dell’alfabeto, che poi venivano scritte fino a formare le prime parole e frasi: la scrittura veniva facilitata dal maestro che teneva la mano del bambino accompagnandolo nei movimenti, oppure le lettere venivano ricalcate su un normografo dove erano incise: inserendo lo stilo nel normografo, il bambino si abituava al movimento delle dita per ogni lettera.
Per imparare a fare i calcoli, il bambino si aiutava con l’abaco: una tavoletta dove c’erano delle scanalature per l’inserimento di sassolini: i “calculi”. Per scrivere si usava lo “stilo”: un bastoncino di metallo o di legno duro, che con la sua punta incideva la cera stesa su una tavoletta. Per cancellare bastava passare il dito o il palmo della mano sulla cera per spianare le incisioni. Il “calamus” (una vera e propria penna) serviva per scrivere sul papiro o addirittura sulla “pergamena”: una pelle di pecora assottigliata e stesa, prodotta per la prima volta a Pergamo.
Il periodo dell’istruzione di base durava cinque anni e in questo periodo il “ludimagister” doveva mantenere i bambini attenti e senza distrazioni: l’uso della verga, della frusta o altre punizioni corporali, erano la normalità. La “ferula” (verga) veniva usata percuotendo il palmo della mano, mentre la frusta si usava sul dorso o sul sedere denudato.
Non veniva ascoltata né insegnata la musica e non si faceva ginnastica.
Dopo il primo corso di studi si passava, intorno ai 12 anni, alla scuola del “gramaticus” a cui accedevano solo i ricchi. L’insegnamento si basava sui testi classici latini e greci: l’insegnante leggeva il brano e commentava il componimento poetico e gli studenti lo imparavano a memoria. Il grammatico spiegava dando più informazioni possibili sull’autore, il periodo storico, la mitologia, la geografia ecc. Lo studente bravo era quello che sapeva ripetere la massima parte delle informazioni date dall’insegnate. Il solito Giovenale, parla così del ragazzo considerato bravo: “Sa il nome della nutrice di Anchise, il nome e la patria della matrigna di Anchemolo, quanti anni visse Alceste e quante urne di vino di Sicilia dette ai Frigi”.
La fine degli studi secondari era occasione per una vera festa: i “liberalia” in cui il ragazzo vestiva la “toga virilis” e diventava a tutti gli effetti “civis romanus”.
Pochi privilegiati proseguivano a studiare col “retor”: l’eloquenza era la materia principale insegnata. I giovani dovevano comporre dei discorsi e declamarli davanti al maestro e agli altri studenti. Potevano essere “suasoria”, ovvero il vaglio di argomenti favorevoli o contrari prima di una decisione importante; oppure “controversiae”, tesi giudiziarie contrapposte, sviluppate da due studenti che dovevano convincere l’uditorio a emettere il giudizio. Era la scuola che preparava gli adulti alla carriera politica o all’avvocatura.
Le femmine arrivavano al massimo a seguire il “ludimagister” insieme ai loro fratellini, ma poi pochissime accedevano agli studi col “gramaticus”: quasi tutte terminavano la scuola per seguire la madre nelle faccende di casa e nell’economia domestica. Qualcuna, molto ricca, andava a scuola di danza o di canto dei poemi al suono della “lyra”. Verso i 14 anni venivano promesse dal padre a qualche personaggio, il più importante possibile, che avrebbe garantito vantaggi politi o economici alla famiglia. L’età media delle spose era intorno ai 17 anni. Il matrimonio sanciva la fine della gioventù e l’inizio di una dipendenza assoluta dal marito, dopo aver subito fino ad allora quella del padre.
Tutto sommato, li regazzini de Roma antica nun è che se la passaveno troppo bene!

Maurizio Marcelli

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